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Nuvole d'arte Sergio Brancato: fenomenologia e sociologia del Commissario Ricciardi

04/07/2017

A pochi mesi dal debutto del “Commissario Ricciardi a Fumetti” abbiamo incontrato Sergio Brancato, autore dei testi de “La condanna del sangue” e “Il giorno dei morti” per la nuova miniserie Bonelli. Ci accoglie nel piccolo ufficio del Dipartimento di Sociologia all’Università Federico II di Napoli (dove insegna Sociologia della Comunicazione e Storia dei Media) in un afoso pomeriggio di fine Giugno, tra vecchie vhs e pile di libri che sembrano rispondere ad un preciso quanto personale ordine. Affissa alla porta una stampa di Tex Willer ricorda un messaggio agli studenti.

Professore, come e perché è nata l’idea di rappresentare in forma grafica le indagini del Commissario Ricciardi?
L’idea originale in realtà è di Mario Punzo, il direttore della Scuola Italiana di Comix. Mario è una forza della natura che ritroviamo spesso nelle più importanti iniziative sul fumetto che si realizzano a Napoli. Lettore vorace, ha pensato che sarebbe stato bello fare una versione a fumetti del commissario creato da Maurizio de Giovanni nel 2005. Così ha proposto due anni or sono la cosa a Mauro Marcheselli, allora direttore della Sergio Bonelli Editore, al quale l’idea interessò. Fu contattato Maurizio, che ha ceduto gratuitamente i diritti sulla propria opera purché – questa la sua condizione – a realizzare i fumetti di Ricciardi fosse un’equipe interamente campana, a partire dagli sceneggiatori per arrivare ai disegnatori e ai coloristi. La Bonelli ha accettato senza problemi, poiché era una soluzione logica (disegnare la Napoli degli anni ’30 richiede qualcuno che conosca il territorio cittadino così come la sua peculiare antropologia) e anche perché in realtà molti tra gli autori di punta della casa editrice milanese sono napoletani. Da allora a oggi, il Ricciardi a fumetti ha acquisito concretezza, e le aspettative della Bonelli sono cresciute, sino a renderlo un progetto di punta della casa editrice.

La contaminazione tra letteratura e fumetto non è un esperimento nuovo. Quali sono i rischi che si corrono nel trasportare un personaggio all’interno di un nuovo universo?
Per la Sergio Bonelli, che – ricordiamolo – è la maggiore casa editrice di fumetto in Italia, con personaggi leggendari che siglano il nostro immaginario (da Tex a Zagor, da Dylan Dog a Dampyr…), si tratta in realtà di un vero e proprio esperimento, perché per la prima volta essa si cimenta con un “eroe” esterno alla sua factory. Non a caso la serie è seguita in prima persona da Davide Bonelli, da Michele Masiero (l’attuale direttore editoriale) e da Luca Crovi. La natura sperimentale del progetto è confermata dal team di scrittura, composto da Claudio Falco (sceneggiatore di Dampyr), Paolo Terracciano (head-writer di Un posto al sole) e me, che di mestiere faccio il sociologo dei media, sebbene abbia un passato come sceneggiatore. La scelta della casa editrice è stata coraggiosa e finalizzata a esplorare un territorio nuovo, quello di un fumetto contemporaneo in grado di interagire con la serialità letteraria di un personaggio popolare come Ricciardi. In stretta sinergia con Maurizio de Giovanni, abbiamo realizzato prima gli adattamenti e poi le sceneggiature dei primi quattro romanzi del ciclo, oltre che di alcuni racconti brevi. Il nostro obiettivo è stato quello di tradurre da un linguaggio all’altro il fascino delle storie di Maurizio senza tradirne gli elementi di forza e appeal. Compito non facile, nel quale tuttavia abbiamo utilizzato le nostre competenze in apparenza “spurie”, non strettamente fumettistiche, per le quali siamo anche stati criticati da qualcuno: ma è stato proprio questo approccio flessibile e trasversale a consentirci di realizzare degli adattamenti insieme classicamente bonelliani e innovativi.

Il suo rapporto con i libri di Maurizio De Giovanni. Quali sono i caratteri fondamentali che ne hanno decretato il successo?
Mi capita di avere anche un rapporto personale con Maurizio, che è un caro amico. L’ho conosciuto dopo aver letto i primi romanzi di Ricciardi, perché mi invitarono a presentarlo. Lì devo averlo colpito per qualche motivo, perché abbiamo preso a frequentarci, causa anche alcune amicizie comuni. Quando è nato il progetto della Bonelli, dunque, partivamo avvantaggiati, visto che anche Falco e Terracciano sono amici. Quando lessi i primi libri di Maurizio mi piacquero subito, avevano qualcosa di nuovo e originale rispetto alla produzione italiana del periodo, infatti si sono trasformati in canone di riferimento per gli altri scrittori di noir. Basti pensare al recupero della figura del fantasma nei romanzi di Lucarelli o Manzini. Mi piaceva il mélange di generi e la capacità di gestire le trame attraverso una scrittura molto visiva, funzionale alle emozioni e ammiravo anche la linea narrativa melò del personaggio, che appariva assai vicina alla sensibilità di certi film italiani del dopoguerra, ad esempio quelli del grandissimo Raffaello Matarazzo. Maurizio è capace di scrivere senza mai smarrire il filo emotivo che lo lega ai suoi lettori, da questo punto di vista è uno scrittore “popolare” in un senso molto “nobile” del termine.

In effetti salta all’occhio, scorrendo i nomi di sceneggiatori e disegnatori coinvolti nel progetto, che siete tutti legati a Napoli. La metropoli del Sud è forse la protagonista assoluta nei romanzi del Commissario. Quanto avete lavorato su questo aspetto?
Moltissimo. Abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca sull’iconografia della Napoli del periodo, dedicandogli mesi e mesi, scavando nelle emeroteche così come nei ricordi familiari di ognuno di noi. Abbiamo tentato di ricostruire il mondo di Ricciardi con le immagini disegnate dai nostri bravissimi artisti grafici, unendo il rigore storico alla creatività del narrare. Non è stato semplice, paradossalmente è molto più facile per Maurizio che usa il dire e il non dire evocativo della parola. Ma il risultato, lo vedrete tra qualche mese, ci ripaga ampiamente della fatica.

Manca ancora un po' di tempo all’uscita del primo numero e già in rete corrono mille ipotesi. Prima o poi il Ricciardi dei fumetti prenderà una propria strada (con trame e sviluppi diversi) oppure resterà solo un omaggio a quello letterario?
Recentemente, in occasione del Comicon di Napoli, Maurizio ha detto che lui intende chiudere il ciclo di Ricciardi tra due romanzi. Non sappiamo che fine farà dunque il suo personaggio. Credo che i lettori, così come accadde a suo tempo con il pensionamento di Maigret da parte di Simenon, insorgeranno armati e costringeranno lo scrittore a ripensarci. Già mi vedo scene splatter alla Misery non deve morire … scherzi a parte, se è vero che il Ricciardi letterario presto chiuderà i battenti, è anche vero che Maurizio ha lasciato trapelare la possibilità che il personaggio continui a vivere nel fumetto. Ma in che modo ciò possa accadere, al momento non saprei dirlo.

Il medium libro ci “costringe” ad immaginare situazioni e azioni che a voi è toccato rendere in forma grafica. Come si fa riscostruire i caratteri di un tempo passato da così tanto?
Trasformando il fascino della scrittura nella ricostruzione di mondi scomparsi allo sguardo, ma salvaguardati dalla fotografia e da tutti i media audiovisivi che hanno radicalmente mutato la condizione del soggetto moderno e la sua relazione con la memoria. Siamo parte delle generazioni che usufruiscono del maggior numero di informazioni nell’arco dell’intera storia della specie umana. Basta cercare e, soprattutto, abbinare la metodicità della ricerca alla passionalità dell’immaginazione. E poi, in realtà, quegli anni ’30 non sono passati da così tanto tempo: nemmeno un secolo è trascorso e molti di noi conservano, soprattutto attraverso il bagaglio dei ricordi familiari, il suo sapore sul palato.

Lei è prima di tutto un importante sociologo, materia che insegna all’Università di Napoli. Quanto della sociologia della Napoli degli anni ’30 dipinta da De Giovanni possiamo ritrovare tra le caotiche strade di quella moderna?
Moltissima. Nel corso del Novecento molti sono stati i sociologi, i filosofi e in genere gli studiosi che hanno visitato questa città. Anche perché gran parte dell’intellighenzia nazionale era concentrata qui, ma soprattutto perché tutti intuivano la natura liminale di Napoli, il suo essere un mondo di confini e attraversamenti tra culture ed epoche. Non a caso Walter Benjamin, probabilmente il più grande sociologo del secolo scorso, coniò proprio negli anni ’30 la nota definizione di “città porosa” per definire la condizione culturale della napoletanità. Dopodiché, Napoli è senz’altro cambiata molto in questo lasso di tempo, basti pensare alla nascita delle grandi periferie – con tutto l’impatto sociologico che ne consegue – e alla crisi storica della società verticale, ovvero di quella organizzazione trasversale che permetteva nella nostra città un equilibrio tra le diverse componenti sociali del tutto ignoto in altre realtà urbane.

Post-serialità è un termine a lei caro per definire la nuova forma narrativa propria soprattutto delle serie tv contemporanee. In che era si trova da questo punto di vista il Fumetto?
Oggi le tv-series – peraltro sempre meno televisive, perché la televisione così come l’abbiamo concepita per circa mezzo secolo nei fatti non esiste più – costituiscono la punta più avanzata della ricerca sulle forme narrative. Per qualcuno, se il cinema era stato il medium che aveva sostituito il romanzo nell’egemonia dello storytelling del mondo moderno, oggi la fiction tv l’ha spodestato e assunto il ruolo di grande collettore dei processi simbolici. Ovviamente non è così semplice, ma questa è un’altra storia. Dal canto suo, il fumetto è coinvolto anch’esso, come sempre, nei flussi incessanti del mutamento dei media, ovvero di quelle dinamiche della comunicazione che per molti versi coincidono con la stessa trasformazione sociale. Negli ultimi anni i comics sono stati sempre meno identificabili nelle tradizionali forme della serialità, spostandosi verso dimensioni nuove come il graphic novel. Ma tutto cambia con grande velocità, e secondo me siamo già diretti verso nuove prospettive. Credo che ci troviamo nel mezzo di un grande spostamento carsico delle culture del fumetto, e che un progetto come il Ricciardi bonelliano possa inserirsi a pieno titolo dentro questa rifondazione epocale dell’immaginario.

Igort, Walt Disney, il concetto di “Fabbrica”, le teorie di Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica sono i temi principali del suo ultimo libro, “L’imperio dei segni”. Quanto l’esperienza del Fumetto ha disegnato del mondo che viviamo oggi, e cosa dobbiamo aspettarci ancora?
Il fumetto è stato uno dei grandi protagonisti del sistema novecentesco dei media, sebbene abbia ascendenze anche più antiche. Le culture metropolitane, quelle nate dopo il big bang della rivoluzione industriale e che danno vita alle idee di individuo e di società che oggi abbiamo in mente, si modellano – sostiene McLuhan - intorno all’azione fisioterapeutica dei media di massa: il cinema, com’è ovvio, ma anche i comics sono calati integralmente dentro questa riformulazione dell’esperienza umana che dà l’impronta al secolo breve. Nel mio ultimo libro, oltre a divertirmi nel parafrasare il titolo di quel meraviglioso saggio di Roland Barthes che è L’impero dei segni, ho utilizzato l’opera di Igor Tuveri, in arte Igort, uno dei più importanti autori della storia del fumetto, per ragionare dentro un orizzonte più vasto e interrogarmi sullo stato della cultura contemporanea, sui mutamenti delle ideologie dell’arte e dei media, sui nuovi processi di identificazione delle soggettività storiche nel nostro tempo. Come dire che ho preso un oggetto – i comics - che alcuni si ostinano a considerare poco significativo sul piano dei processi culturali e ho evidenziato, solo evidenziato, la sua capacità di restituire i significati profondi dell’esperienza sociale. Perché io faccio il sociologo, non il teologo o lo studioso di estetica, e per me al centro del mondo non vi sono déi ed eroi ma le moltitudini senza nome di cui ognuno è parte.

I suoi “classici” della nona arte. A quali storie e quali autori è più legato e quali sono quelli attuali che meritano attenzione?
La lista è infinita! È come quando mi chiedono qual è il mio film preferito. Come si fa? Se risponde lo studioso, si rischia di perdere di vista la visceralità emotiva del semplice lettore appassionato. Allora eviterò il problema sparando alcuni nomi di cui mi pentirò, così come poi mi pentirò per aver dimenticato qualcosa di irrinunciabile: Flash Gordon di Alex Raymond; Batman e Devil – perché sono speculari tra loro; tutto Attilio Micheluzzi e il Pratt di Corto Maltese; Moebius e Andrea Pazienza; Magnus; il Tanino Liberatore di Ranxerox; Charlie Brown e B.C.; Alan Moore quando non si perde nell’esoterismo estremo; senza dubbio Igort – a partire dalle sue cose con Brolli; alcune serie storiche di Tex ma anche qualche recente riscrittura; le fantasmagorie oniriche di Druillet e Corben, ma anche quelle del geniale Jacovitti; l’oriente magico e quotidiano di Jiro Taniguchi; il senso del colore di Mattotti e di Carpinteri; la meraviglia incessante di Alberto Breccia e di Jack Kirby; la misura smisurata di Will Eisner. E la smetto solo perché se no non la finisco più…

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