Diciannovesimo secolo. Un uomo sta battendo al telegrafo di una piccola stazione. All’improvviso la porta si spalanca ed entrano due uomini armati con mezzo viso coperto, intimano all’impiegato di andarsene e alla resistenza di quest’ultimo non esitano a colpirlo.
Raggiunti da altri due compari, i banditi salgono sul treno che nel frattempo si è fermato per la sosta e, una volta ucciso il fuochista, costringono il capotreno a scollegare la locomotiva su cui si daranno alla fuga. Ben presto la banda si rende conto di essere inseguita dalla polizia a cavallo. Gli uomini in divisa iniziano a sparare e i fuorilegge rispondono immediatamente al fuoco. Da quelle parti non ci sono regole, le parole non servono, la ragione o il torto sono il prodotto tra una buona mira e la velocità con cui viene estratta la pistola. Gli europei e quelli delle grandi città dell’Est lo chiamano “selvaggio”, per chi ci è cresciuto e ci vive è solo il West, con quello che comporta.
I 12 minuti di “The Great Train Robbery”, tradotto in italiano come “Assalto al treno”, girati nel 1903 da Edwin S. Porter, inaugurano ufficialmente il genere Western.
Da quel giorno, il Cinema non ha mai smesso di narrare un’epoca fatta di leggende e violenza, attraverso i paesaggi sconfinati percorsi da carovane e tribù di nativi di John Ford, quelli aridi di Sergio Leone in cui si stagliano le figure di uomini senza nome pronti a tutto per qualche dollaro in più o quello bagnato e fangoso in cui affondano gli zoccoli del cavallo di Clint Eastwood nel cupo finale di “Gli spietati”.
Per quel che riguarda il fumetto, il Western comincia in America all’inizio degli anni ’40, ma si riduce a grandi linee ad una riproposizione dei personaggi resi famosi dalla letteratura e dal grande schermo. E’ nel vecchio continente, dove il popolo guarda affascinato le immagini che arrivano da quel mondo oltre l’oceano, grazie alla fantasia di giovani fumettisti che si muovono nelle sale affollate del dopoguerra, che il mito del selvaggio West acquista vita e spessore propri anche nell’ottava arte.
Tra questi c’è Gian Luigi Bonelli, che qualche anno prima ha acquistato la casa editrice L’Audace di Milano, uno a cui piace scrivere storie e anche prendersi qualche rischio nella vita. Nel 1947 scrive il suo primo soggetto con cowboy e indiani, ma non gli va troppo bene. Il ragazzo non si scoraggia e l’anno dopo ci riprova insieme ad Aurelio Galleppini, raccontando le gesta di un ranger del Texas dai modi rudi impegnato a fronteggiare le varie minacce provenienti da tribù ostili, bande di fuorilegge e avventurieri dalle intenzioni poco raccomandabili che incrociano la sua strada.
Nato come supplemento per incrementare le vendite di “Occhio Cupo”, incentrato sulle vicende di un aristocratico francese nel ‘700 (il genere Cappa e Spada era famosissimo a quel tempo) il successo di “Tex” finì immediatamente per convincere gli editori a sostituire le vicende dello spadaccino con quelle dello sceriffo e dei suoi aiutanti Kit Carson, leggendario pistolero suo maestro e Tiger jack, guerriero Navajo che considera un fratello. A questi si aggiunge Kit Willer, figlio che il ranger ha avuto da Lilyth, della tribù “Freccia Rossa”, morta quando era ancora bambino, dal grande coraggio e nobili ideali per i quali non esita a rischiare, spesso anche imprudentemente, la propria vita.
Sulle orme di Tex Willer il panorama del fumetto italiano si riempie in pochi anni di sfide leggendarie tra uomini con gli stivali e larghi cappelli, prima con “Piccolo sceriffo” e dopo col lavoro del trio passato alla storia come EsseGesse (Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartoris), creatori di “Capitan Miki” nel 1951, le cui strisce raccontavano la carriera militare di un adolescente arruolatosi nei Rangers, e di altri personaggi immortali come “ Il grande Blek” e “Comandante Mark”, saghe proseguite con successo per vari decenni sotto il marchio Dardo.
Nel frattempo anche l’editoria degli altri paesi d’Europa non sta a guardare, soprattutto in Belgio e in Francia, dove già nel 1946 aveva visto la luce “Lucky Luke”, col cappello calato sugli occhi e il sigaro in bocca, e col passare degli anni arriveranno “Blueberry” e “Durango”.
Proprio dall’opera di Jean-Michel Charlier e Jean Giraud comincia la raccolta “I capolavori del Western”, iniziativa di Gazzetta Store. Il primo numero “Fort Navajo”, in edicola a prezzo speciale ma che stando alle notizie in rete sembra essere già esaurito, introduce il personaggio di Mike Donovan detto Blueberry, che tira avanti sfruttando la sua abilità di giocatore di poker e passa gran parte del giorno attaccato alla bottiglia o in compagnia di donne giudicate poco rispettabili, ma allo stesso tempo possiede un forte senso della giustizia ed è sempre pronto ad aiutare i più deboli.
Composta da 90 uscite, la collana riproporrà altre serie storiche come “Comanche”, “Cartland” e “Jerry Spring”. Sicuramente un ottimo modo per riscoprire racconti intramontabili, storie che nel nostro paese sono poco conosciute pur meritando di diritto un posto tra gli scaffali degli appassionati.
Ricordando il grande lavoro fatto da Repubblica negli ultimi anni con le collezioni a colori di “Tex” e “Zagor”, applaudiamo il giornale rosa nella speranza che progetti così non restino isolati. Lo dobbiamo soprattutto alla genialità di autori che hanno saputo raccontare, a volte meglio degli americani stessi, un mito nato a mezzo mondo di distanza.
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