Nel 1913 l’industria automobilistica di Henry Ford rivoluziona il concetto di produzione attraverso la “catena di montaggio”. Il prodotto finale non viene più realizzato da un solo operaio, o da un piccolo gruppo, ma assemblato da una squadra in cui ciascun elemento è addetto ad una sola, specifica mansione. In questo modo il tempo di fabbricazione di un’automobile si riducono da dodici ore ad una sola.
In pochi mesi le maggiori industrie iniziano a copiare l’idea. Nel frattempo, nei circoli intellettuali e tra i sociologi dell’epoca si sviluppa una critica alla nuova concezione del lavoro operaio nelle metropoli. Gran parte di questa fa riferimento al pensiero di Marx che a fine ‘800, indagando le dinamiche della rivoluzione industriale e del Capitalismo, introduce il concetto di “alienazione” del lavoratore.
L’operaio, all’interno dei nuovi schemi, non è più proprietario del bene che produce, anzi, essendo quest’ultimo appartenente al capitalista il lavoratore assume una posizione passiva rispetto l bene stesso, essendone in pratica dipendente. Oltre al rapporto con l’oggetto prodotto, l’operaio è alienato rispetto al capitalista, con cui ha un rapporto impari, e anche verso i suoi simili e sé stesso, dato che il suo lavoro, i suoi orari e anche i momenti di pausa non sono liberi ma forzati.
Charlie Chaplin nel film “Tempi Moderni descriveva le condizioni del lavoro all’interno delle nuove industrie con i toni della commedia, pur non rinunciando al risvolto drammatico nelle vicende dei protagonisti. Prima di lui, nel 1927, Fritz Lang, con toni decisamente più cupi, aveva portato sullo schermo il capolavoro “Metropolis”, opera simbolo del cinema espressionista.
Ambientato un secolo dopo la sua realizzazione, il titolo prende il nome della città in cui si svolgono i fatti narrati, governata da un gruppo di ricchi industriali che, dai loro grattacieli, costringono la classe operaia a lavorare, in condizioni precarie e senza diritti, nel sottosuolo.
Alcuni anni fa, Francesco Artibani cominciò a parlare di una trasposizione a fumetti del film con protagonista Topolino. Nello stesso periodo Paolo Mottura pubblicò una prima bozza della copertina da lui ideata per la storia, raffigurante la celebre locandina in cui l’automa aveva l’aspetto di un topo.
L’attesa degli appassionati termina lo scorso 4 Gennaio, quando la storia, dopo un lungo periodo di progettazione, vede finalmente la luce su Topolino 3189.
Topp è l’erede delle industrie Topper, la società che ha costruito la città di “Metopolis”. Circondato da tutti gli agi, il giovane non si è mai interessato dell’organizzazione imprenditoriale della sua azienda, lasciando pieni poteri a Petersen, uno dei più fidati collaboratori del padre. Una sera, annoiato dall’ambiente e dall’invadenza degli ospiti dell’ennesima festa cui è stato costretto a partecipare, Topp scappa e si ritrova a vagare per le strade della città dove incontra Minny, una maestra che ha appena finito la sua lezione alla scuola serale. Si rivelerà l’occasione per conoscere una realtà lontana a quelli come lui, uno spaccato della città col quale non aveva mai fatto i conti ma di cui inconsapevolmente è il principale artefice, perché li, nel punto più in basso, batte il cuore di Metopolis, la fabbrica Topper.
Al suo interno, quasi come schiavi, lavorano gli operai che tengono in moto la “grande macchina”. La presa di coscienza dell’ingiustizia sociale di cui è complice spingerà Topp ad entrare in conflitto con Petersen, proprio mentre il corrotto amministratore sta per mettere in atto, con l’aiuto del Professor Blackfang, un progetto che rivoluzionerà la vita della città e dei suoi abitanti.
Dopo le non entusiasmanti prove di “Don Pippotte”, “Frankenstein” e del “Paperopardo”, la parodia firmata Disney torna a battere un prepotente colpo con questo gioiello. Lo stile di scrittura è decisamente serioso. Le battute che dovrebbero far sorridere sono ridotte al minimo, e quando ci sono mascherano spesso un contenuto drammatico, come il personaggio di Pippo che ha dimenticato il suo nome e a chi glielo chiede fornisce il numero di matricola perché in quel posto è l’unica cosa che serve. Ottimo l’uso dei personaggi, con un Gambadilegno stavolta nei panni dell’antagonista principale e Macchia Nera di quello al suo servizio, e un applauso alla tanto criticata fidanzata ingenua e superficiale di Topolino che in ruoli come questo dimostra potenzialità su cui sarebbe bene che anche altri autori iniziassero a ragionare.
Una meraviglia i disegni. La “Metopolis” di Mottura è opprimente, le sue forme irregolari, i grattacieli volutamente sproporzionati. Gli operai della fabbrica sono rappresentati tutti praticamente con le stesse sembianze, per sottolineare ancora di più il concetto di perdita dell’identità della persona, che nel contesto della catena di montaggio viene inquadrato solo in funzione all’utilità del suo lavoro.
Un’ottima rilettura che abbandona il bianco e nero per una colorazione dai toni forti dove dominano il giallo e il blu e dà maggior risalto al fenomeno dell’indottrinamento della massa. Un tocco di modernità per un film che ancora oggi, a novant’anni dalla sua realizzazione, risulta assolutamente al passo con i tempi, per tematiche e rappresentazione scenica. Soprattutto, guardando al nostro presente e alla strada sulla quale sembriamo esserci incamminati, le sue immagini mute e sgranate hanno l’aspetto di un sinistro, cupo presagio che bussa alla porta.
“I grattacieli di Metopolis sfiorano le stelle, ma è qui che cominciano”, dice Minny a Topp mentre scendono nel sottosuolo. La città “è come un albero scintillante, ma la fabbrica è la sua radice”.
Le radici, appunto, e le persone che vi sono intrappolate, in un mondo che dà a pochi la possibilità di arrivare in cima, e troppo spesso si dimentica di loro.
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