Il 27 Gennaio 1945 dalle parti di Oswiecim non si spara più. La neve ha coperto il rumore delle raffiche e sembra aver steso un manto bianco come a voler coprire la guerra, quasi che il mondo stesso si vergognasse della follia che l’aveva pervaso.
Forse un soldato dell’Armata Rossa avrà pensato, mentre si aprivano i cancelli di quella che sembrava una grossa fabbrica di produzione bellica, che in fondo l’inverno polacco non era tanto male rispetto a quello russo, che dopo tanti anni finalmente casa non sembrava più tanto lontana, che magari tra pochi mesi ci sarebbe tornato in tempo per vedere i fiori sbocciare, che dopo tutta quella neve sarebbe ricominciata la vita e tutto sarebbe tornato normale.
Una grande scritta in tedesco capeggia sul pesante cancello. Entrati nel cortile, tra la nebbia gelida, iniziano a distinguere delle forme. Sono uomini e donne, o quello che ne rimane. Presto si iniziano a contare i vivi e i morti, e dopo poche ore tutti hanno capito cos’è quel posto e cosa facevano alle persone che vi erano rinchiuse. Un luogo di morte, il figlio prediletto di quel mostro chiamato guerra, nascosto tra la neve di un inverno della Polonia meridionale, concepito dalla Germania Nazista insieme a molti altri per eliminare la razza ebrea. Auschwitz, lo chiamavano i tedeschi.
In mezzo a quei sopravvissuti c’è Vladek Spiegelman. Lui, insieme a tanti altri, da quel giorno non smetterà mai di raccontare agli altri come in pochi anni la follia umana gli ha strappato via la famiglia, la casa, la libertà e la dignità. Per lui, e per molti altri, non c’è ritorno dal fondo in cui sono precipitati.
Art Spiegelman, suo figlio, nasce in America nel 1948. E’ il simbolo di una nuova vita in un nuovo mondo che nasce sulle ceneri e sul sangue di quello che ha conosciuto Vladek. Il Nazismo non c’è più, il suo capo si è ucciso prima di essere catturato, la maggior parte dei suoi gerarchi l’hanno seguito, altri sono stati catturati ma capita che ogni tanto gli incubi del passato tornino a bussare, nel silenzio della notte. Sui ricordi del padre Art costruisce, una volta diventato adulto e un bravissimo fumettista, “Maus – A Survivor’s Tale”.
Il romanzo a fumetti, articolato in undici capitoli, è diviso in due parti. Nella prima, “Mio padre sanguina storia”, che ne raccoglie i primi sei, viene mostrato il rapido precipitare delle condizioni di vita degli ebrei polacchi con l’affermazione del Nazismo negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale; nella seconda, “E qui sono cominciati i miei guai”, la narrazione si concentra sulla tortura quotidiana nei campi di sterminio mentre all’esterno infuria il conflitto.
Nel rappresentare questo mondo folle l’autore sceglie di dare ai suoi personaggi la forma di animali. Gli ebrei, rinchiusi e perseguitati, sono raffigurati come topi, i nazisti come gatti, gli americani come cani e via così. I colori sono assenti, il tratto è calcato, quasi confuso in alcune immagini, per rendere palpabile il senso di smarrimento e di impotenza di fronte alla immotivata violenza fisica e psicologica a cui i prigionieri sono sottoposti.
“Maus” non è solo la storia di Vladek e Anja, innamorati senza potersi vedere, vicini senza potersi toccare, ma soprattutto di Art. A spezzare la narrazione del racconto del passato si contrappongono i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza del fumettista, istantanee di vita quotidiana che mostrano il difficile rapporto tra Spiegelman e un padre ancora prigioniero del suo passato, tanto da rendere quasi impossibile la vita a chi gli sta intorno.
Anja, sconvolta allo stesso modo del marito, soprattutto dalla perdita del primo figlio non sopravvissuto alle persecuzioni, ma dal carattere chiuso, si tiene tutto dentro fino a quando non si suicida nel 1968. Mala, la seconda moglie, anche lei deportata durante la guerra dove ha visto morire entrambi i genitori, è invece una donna dal carattere deciso, che ha con lui un rapporto burrascoso e non esita a rinfacciargli le assurde manie e le debolezze.
In mezzo, perseguitato da un passato non suo, c’è Art, all’apparenza distaccato, in realtà sofferente per la situazione e oppresso dalla figura paterna che gli trasmette un senso di profonda inadeguatezza, spesso quasi di inferiorità. Eppure, se in “Prigioniero sul pianeta Inferno – Un caso clinico”, realizzato poco dopo la morte della madre si disegnava al suo funerale con una divisa da carcerato a simboleggiare la prigionia della vita col padre, nel 1986 quando pubblica “Maus”, Spiegelman non sembra più avere il coraggio di condannare nessuno, limitandosi alla fine a mostrarci come le paure e le sofferenze dei genitori ricadano spesso sugli incolpevoli figli.
Bisogna convivere con ciò che è stato, perché non possiamo cambiarlo, però possiamo impegnarci per fare in modo che non ricapiti mai più. Ci sono tante persone ancora in cella, perseguitati che scappano da bombe e colpi di pistola, e troppi soldati sui campi di battaglia che aspettano di tornare. Riportiamoli tutti a casa.
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