-Non cercare di piegare il cucchiaio, è impossibile, cerca di fare l’unica cosa saggia, giungere alla verità-.
-Quale verità?...-.
-Che il cucchiaio non esiste! E ti accorgerai che non è il cucchiaio a piegarsi…ma tu stesso-.
(Matrix – Larry e Andy Wachowski 1999)
Città dell’Est. In un vecchio palazzo di un quartiere degradato un’unità dell’Agenzia Alfa sta portando a termine un’operazione segreta.
L’obiettivo è fermare un individuo sospettato di essere uno degli attentatori responsabili del black-out che ha paralizzato la città, ma qualcosa non va per il verso giusto. L’uomo riesce a fuggire e, nello scontro a fuoco che ne segue con uno degli agenti, un innocente viene colpito da un proiettile vagante e muore; come se non bastasse l’attentatore scompare d’improvviso dopo essersi buttato dal tetto dell’edificio, come inghiottito dal nulla.
Nathan Never, che aveva il comando dell’operazione, viene sollevato immediatamente dal suo incarico, accusato di aver sparato il colpo che ha ucciso il professor De Brulle, famoso luminare della fisica.
All’agente non resta che consegnare pistola e distintivo, ma scopre che in realtà quella non è la sua arma. Nel trambusto seguito all’irruzione nel covo dell’hacker, infatti, l’ha scambiata casualmente con quella della sua collega Legs Weawer.
Ma, se non è stato lui, chi ha sparato a De Brulle? Mentre tenta di far luce sul mistero Nathan riceve una strana telefonata. La voce all’altro capo dice di chiamarsi Dana, e di sapere dov’è l’uomo scomparso. Per ritrovarlo le occorre il suo aiuto; in cambio, se ubbidirà e non farà scherzi, i suoi guai saranno risolti.
Nel 1999 Matrix, dei fratelli Wackowski, mimetizzava dietro roboanti effetti speciali e spettacolari combattimenti sospesi a tre metri dal suolo un intento molto più profondo, la ridefinizione completa dei concetti di Realtà e Creazione. Il film ipotizzava che l’intero universo non sia altro che la rappresentazione creata da un computer di intelligenza superiore che controlla la razza umana. Ci divertiamo, viaggiamo, guidiamo l’auto, sappiamo che il mare è azzurro e il sole giallo. Chiedersi se tutto questo sia “vero” appare una follia. Se io vi dicessi che ho visto un falco volare nessuno farebbe obiezioni, ma se dicessi che ho visto un cavallo librarsi nel cielo non ci crederebbe nessuno.
Il motivo? Un cavallo non può volare. Perché? Perché non è reale.
Ed ecco il punto, quella che noi chiamiamo “realtà”. Ci ancoriamo ad essa, stabiliamo le leggi guida della nostra esistenza, poniamo dei limiti e dei punti di non ritorno. Assumiamo, senza obiezioni, e ci pieghiamo a tutto ciò che reputiamo reale. E se invece le cose non stessero così? Se ci fosse davvero una specie di programma madre a decidere cosa farci vedere e cosa farci fare?
Troppe domande, e troppo difficili, ma “Nathan Never 300 - Altri mondi”, scritto da Bepi Vigna, disegnato da Roberto De Angelis e presentato in anteprima al Comicon con una bellissima variant cover di Enki Bilal è, appunto, una storia “difficile”.
Dietro la manomissione della linea elettrica della Città dell’Est c’è il dottor David Brohme, nato nel nostro secolo, che viaggia nel tempo e attraverso dimensioni diverse da un posto che lui stesso ha chiamato “Tempo zero”, un luogo sospeso in una specie di limbo con strani esseri che si muovono minacciosi in un vuoto senza fine.
Quello che Vigna porta in scena è un puzzle che lascia volontariamente molte tessere fuori posto, la cui soluzione sembra mostrare, più che una realtà apocalittica, un’inquietante genesi, dove un dio oscuro nascosto sul fondo di un abisso spia, silente e minaccioso, un mondo fatto di reti, scariche e impulsi elettromagnetici.
Forse in futuro ne sapremo di più, o forse di Brohme e dei suoi non sentiremo più parlare. D’altronde ci sono misteri che non verranno mai spiegati, domande che non riceveranno mai risposta e, in fondo, molte volte nemmeno vogliamo conoscerle. E’ un po’ come la questione della pillola blu e di quella rossa. Se prendi la rossa sei libero, sai che il cucchiaio non esiste e che siamo tutti schiavi, se prendi la blu ti risvegli nel tuo letto, ti alzi, te ne vai a lavoro, la sera torni a casa e continui a vivere come hai fatto sempre.
Mal che vada resta un po’ di mal di testa, come a Nathan nel finale, e la sensazione di aver già vissuto quel momento, ma è giusto un attimo. Basta guardare fuori dalla finestra, ascoltare le voci di chi ti sta intorno, riavvolgere il filo di quella che, bella o brutta, è la tua vita, e tutto va avanti.
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