“Il y a une femme dans tout les affaires…Chercez la femme!”, scriveva Alexandre Dumas nel romanzo “I mohicani di Parigi”. Tradotto, il discorso vuol dire che non importa il luogo e il contesto, alla base di ogni questione irrisolta c’è sempre una donna.
Se pensiamo alla fiction e agli esempi più famosi di attività romanzesca l’affermazione ci sta parecchio. Dai tempi dell’ Iliade e di Elena di Troia (questo nome non mi è nuovo, recitava il genio di Totò), passando per la bella Lucia dei Promessi Sposi del Manzoni, per l’appunto “promessa” a Renzo ma contesa da Don Rodrigo e qualche altro non dichiarato ammiratore, fino ad arrivare alle femmes fatales del romanzo del ‘900 come le Jane Wilkinson e Carlotta Adams di “Se morisse mio marito” (Agatha Christie) o la Vivien Sternwood poi meravigliosamente portata sullo schermo da quello schianto di donna che era Lauren Bacall in “Il grande sonno” (Raymond Chandler). Donne bellissime, affascinanti, intelligenti, spesso ambigue, ma una cosa le accomuna tutte: alla fine vincono sempre.
Dal mondo del romanzo a quello del cinema il passo è breve, e nell’arco di un secolo, dal cinema muto a quello che chiamiamo oggi post – moderno, l’umanità si è innamorata di Ginger Rogers e dei suoi balli con Fred Astaire, delle gambe di Marilyn Monroe in “Quando la moglie è in vacanza” di Billy Wilder, del corpo nudo di Brigitte Bardot ne “Il disprezzo” di Godard e di quello violato di Maria Shnider in “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci. Forme bellissime, ma anche forza di volontà, tenacia e spirito rivoluzionario, con cui la Claudia Cardinale di C’era una volta il West disarma, nel vero senso della parola, tre duri come Henry Fonda, Jason Robards e Charles Bronson, o con i quali Sofia Loren (la più grande diva di sempre, che ancora oggi alla sua bella età toglie il fiato in qualsiasi studio televisivo metta piede) ottiene il rispetto e salva se stessa e la figlia dalle umiliazioni della guerra in “La ciociara”.
Dalla musica, alla pittura, al teatro, la donna è stata protagonista indiscussa dell’ arte, spesso senza nemmeno saperlo; pensiamo alla “Ragazza con l’orecchino di perla” di Wermeer, che da secoli e per il resto di quelli che restano all’umanità è, e sarà, ammirata senza conoscerne il vero nome, o alla Monna Lisa di Leonardo e al suo sorriso che nasconde l’enigma dell’universo femminile per gli uomini.
Anche l’arte del fumetto ci ha parlato, e continua a farlo, della donna. Ha iniziato, se non dal punto di vista prettamente cronologico sicuramente da quello simbolico, nel 1941, quando William Moulton Marston crea il personaggio di Wonder Woman. L’America di allora è un paese che cammina veloce, secondo molti quello dove anche chi nasce senza avere niente può arrivare in alto. Ecco perché il Movimento Femminile, che per secoli ha dovuto ingoiare la definizione di sesso debole, è in fermento. Gli anni giusti, nel paese giusto, per far sentire la propria voce e ottenere diritti per troppo tempo negati.
Anche tanti uomini la pensano così, e tra loro c’è proprio Marston. La sua Diana, donata dalla dea Afrodite alla regina delle Amazzoni Ippolita e scesa sulla Terra per difendere l’umanità, è il simbolo della rivincita delle donne, non più sesso debole e sottomesso, ma eroina di una giovane nazione il cui costume porta i colori della bandiera. “La forza di Superman, con tutto il fascino delle donne”, diceva Marston, raccontando il suo personaggio.
Quasi contemporaneamente sempre la Dc Comics aveva lanciato Selina Kyle, in arte Catwoman, ladra professionista di Gotham City che incrocerà nel corso degli anni tantissime volte la strada di Batman e ancora oggi, dopo più di settant’anni, non siamo riusciti a capire se da amica o nemica.
La Marvel, storica rivale della Dc, impiegherà in questo caso diverso tempo per rispondere in maniera convincente. Dovremo aspettare la fine degli anni '70, altro periodo fondamentale per l’affermazione dei diritti delle donne, con Tempesta e la oggi poco ricordata Ms Marvel, ragazza rifiutata dal padre (altro spunto sociale), che si unisce all’esercito per dimostrare il suo valore.
Eroi e antieroi, come la Eva Kant che aiuta Diabolik nelle sue avventure, fredda e dal difficile passato, o le più moderne Legs Weawer e Lilyth. Sensuali, passionali, simbolo di una femminilità che non ha paura delle convenzioni sociali nell’omosessualità dichiarata della prima, o di vivere la seduzione come un’arma lecita per ottenere i propri scopi come fa la seconda, fino a Crepax e alla sua Valentina, spregiudicata ed erotica icona del sesso.
E, in tutto questo, gli uomini? Alcuni, come Diabolik e Bruce Wayne, provano a capire cosa si nasconde dietro le apparenze, altri come Nathan Never preferiscono osservarle da lontano per paura di restare troppo coinvolti, altri ancora come Tex e Peter Parker si lasciano guidare dall’istinto senza preoccuparsi di sbagliare.
Io, tra tutti, mi sento come Dylan Dog. Lui ha rinunciato da un pezzo a capirle, le donne, perché ha compreso quella che in fondo è, da sempre, la grande fortuna degli uomini: poterle osservare, toccare, vivere, senza bisogno di un perché, in tutto il loro fascino, il loro splendore, il loro mistero.
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