Un po’ di tempo fa, da queste stesse pagine, avevo messo da parte la mia proverbiale pazienza nel dare giudizi, cosa di cui tra l’altro mi rimproverano parecchie persone, e mi ero, per così dire, lanciato in un giudizio essenzialmente molto più che positivo, dopo aver letto solo il primo numero, di “Outcast – Il Reietto”, che arrivava, attesissimo, nel nostro paese.
Il tempo vola, e di bimestre in bimestre la creatura di Robert Kirkman si avvia a compiere il primo anno di vita editoriale, ed ha di fatto, col numero 6 “Vicino a casa” concluso, a detta dello stesso autore, il primo arco narrativo che vede protagonista Kyle Barnes e il reverendo Anderson, alle prese con casi di possessione (ma sarà davvero così?) che stanno squarciando le vite di una tranquilla provincia americana.
Ora, non sono davvero il tipo che ama autocompiacersi, per cui non starò qui a riempirmi di complimenti per la mia lungimiranza e la capacità nel saper riconoscere da poche pagine un fumetto valido da uno meno, o per niente, valido. Sta di fatto che la storia nell’arco della prima annata ha sviluppato in maniera più che convincente gli ingredienti presenti dal primo numero.
Il primo e più importante è, come si intuisce dalla trama, l’elemento del sovrannaturale, trattato nei giusti canoni, senza lasciarsi andare a trovate fin troppo fantasiose che in prodotti dedicati al genere troppo spesso hanno ottenuto l’effetto opposto a quello sperato, rendendo la trama eccessivamente poco credibile e infilandola in vicoli ciechi da cui si esce solo con altre trovate ancor più fantasiose. Qui Kirkman ci da sempre l’impressione, anche davanti a persone che si dibattono e parlano con voci che non sembrano le loro, di volerci tenere di proposito con i piedi per terra, anche aiutato dallo splendido lavoro che sta facendo ai disegni Paul Azeceta, che ci consegna un’atmosfera “surreale”, mai irreale.
Il secondo aspetto sta nel protagonista, il “reietto”. Se “The Walking Dead” è un prodotto corale e “Invincible” un personaggio che trae la sua forza dall’universo che popola e dai suoi abitanti, “Outcast” è davvero la parabola del suo protagonista, Kyle Barnes. Un matrimonio distrutto, un rapporto con la figlia da recuperare, un’infanzia difficile segnata dalla violenza, e un potere che non è ancora chiaro se serva a fare del bene o magari, come lui stesso sospetta, l’opposto. La trama procede bella spedita, ma per la prima volta l’autore si sta prendendo il giusto tempo per farci conoscere il personaggio, un poco alla volta senza sovraccaricare lo spettatore di informazioni.
Al momento ci stiamo facendo un’idea precisa di cosa lo ha portato ad isolarsi dai suoi cari, a vivere in una casa buia, disordinata, con gli spettri di un passato che tornano quasi tutte le notti a bussare nei suoi incubi. A lui si contrappone in modo efficace la figura del reverendo Anderson, sicuro, ma solo in apparenza, di combattere una battaglia contro il male e che in Kyle risieda il dono di aiutare persone che il esso ha fatto prigioniere.
Ecco, il male è l’altro protagonista di Outcast. Non un cattivo in carne e ossa, anche se sembra aver preso le sembianze del nuovo vicino di casa di Kyle, ma nemmeno una presenza troppo astratta come il demonio o spiriti maligni vari.
Già, perché a sentire le parole del reverendo Anderson è il diavolo ad aver preso di mira la città, ma in fondo ne siamo davvero sicuri? Quello che Robert Kirkman ci ha mostrato finora, in fondo, sono persone. Persone che urlano, che graffiano contro i muri, che hanno l’irrefrenabile voglia di far del male ai propri cari d’accordo, ma pur sempre persone.
E così, il dubbio del protagonista diventa anche il nostro. E’ come un bambino che guarda in una stanza dal buco della serratura. Vede un punto della stanza, e descrive cosa sta succedendo dentro, ma in realtà è sempre un punto, un angolazione, e ti rendi contro che in fin dei conti il bambino non sa proprio nulla di quello che sta succedendo dentro la stanza.
Kile, e lo spettatore, sono come quel bambino. Si rendono conto che sta accadendo qualcosa di strano, ma non sanno cosa. Proprio come Cristian Bale nei panni Trevor Reznick, protagonista del capolavoro “L’uomo senza sonno”, magro, pallido, a cui il reietto di Kirkman e Azeceta nell’aspetto somiglia non poco, mentre parla con la prostituta Stevie di alcune strane cose che gli stanno succedendo a lavoro, temendo che i colleghi vogliano danneggiarlo.
-La stai facendo troppo lunga, Trevor- dice lei –se volessero licenziarti lo farebbero e basta-.
-Non mi spaventa essere licenziato- risponde lui guardandola. –E cosa ti spaventa allora?-
-…Ancora non lo so-.
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