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Lost, la serie-principe del mistero: Il ruolo del destino, l’importanza fondamentale delle variabili

09/03/2015

Daniel Faraday:”You can't change the past, can't do it, whatever happened, happened. But then, I finally realised. I had been spending so much time focused on the constants, that I forgot about the variables. And do you know what the variables in these equations are, Jack? Us. We're the variables. People. We think, we reason, we make choices, we have free will... we can change our destiny.”

Titolo: Lost
Anno: 2004 – 2010
Genere: Drammatico, avventura, thriller, fantascienza
Ideatori: J.J. Abrams, Damon Lindelof, Jeffrey Lieber


Lost è forse la serie che più mi ha colpito di tutte quelle che ho visto.
Partiamo da questo presupposto: non è, nel modo più assoluto, come le altre.
Per spiegare il fenomeno Lost, ovvero l’impatto che questa ha avuto sulle masse divenendo così un cult per eccellenza, mi aiuterò con una parola chiave: esperienza. Questa parola l’ho presa in prestito da una recensione fatta dallo youtuber “Yotoby” che esprime molto bene il fenomeno di questa opera televisiva (questo il link https://www.youtube.com/watch?v=LdPf4kd9qzA).
La serie inizia con un incidente aereo su un’isola apparentemente disabitata. In attesa dei soccorsi, i sopravvissuti scoprono che su di essa avvengono eventi inspiegabili e che non sono gli unici ad abitarla.
Non a caso ho detto “la serie inizia” perché descriverne la trama non è semplice.
La sua particolarità è quella di non avere un unico argomento di indagine. Ogni stagione ha una sua linea di svolgimento, intervallata talvolta da flashback, flashforward e persino flashsideways (momenti di vite parallele). Questi ultimi sono quelli che meglio caratterizzano il fenomeno Lost. Questo perché riesce ad astrarre al meglio i momenti di vita di ogni personaggio, con ogni puntata dedicata ad uno o almeno uno di essi, caratterizzandoli via via nel corso delle stagioni. L’astrazione di cui parlo la intendo nel senso che essa riesce a presentare le vite dei personaggi, ma al con tempo a farcele immaginare in altri contesti temporali e spaziali.
I personaggi sono molto ben caratterizzati con dei profili psicologici molto ben sviluppati. Una lode in particolare va anche alla interpretazione degli attori in quanto si calano bene nei panni di naufraghi in preda alla sopravvivenza e stralunati dagli eventi incredibili che investono le loro vite.

Lost, oltre il fatto di essere di una durata molto lunga, presenta un ingente quantità di elementi nella narrazione. Ciò può andare bene ad alcuni spettatori, ma fino ad un certo punto. Molti non hanno apprezzato che queste decine e decine di elementi non vengono spiegate subito, e alcuni di essi addirittura non verranno spiegati affatto fino alla fine. L’alone di mistero che essa crea è eccezionale e mai nessuna fin ora lo ha creato e mantenuto come essa lo ha fatto. Crea incessantemente una suspence senza pari, derivata da eventi inaspettati, concatenati tra di loro in modi talvolta assurdi e inspiegabili.
Gli elementi fantascientifici ricorrenti sono in realtà dotati di una forte carica simbolica, più che essere tesi all’intrattenimento dello spettatore con effetti speciali.
Parlare di questa serie nella sua interezza è praticamente impossibile. O meglio, è possibile solo se ne si scrive un libro di analisi puntata per puntata. Ma neanche in quel caso sarebbe completa la sua comprensione. Questo perché, a mio parere, di Lost “ce n’è più fuori che dentro”. Ovvero che sono più le interpretazioni oggettive e soggettive a rendercela comprensibile. Riguardo quelle soggettive ovviamente la comprensione rimane personale. Ed è proprio questo a rendere bello il fenomeno Lost. Bisogna comprenderlo con un giusto approccio e avere la consapevolezza, dalla prima all’ultima puntata, che non è paragonabile ad altre opere televisive in quanto complessità del tipo di genere.

Potrei azzardare a spiegarvi molte cose secondo il mio punto di vista quali la Dharma Iniziative, gli “Altri”, Jacob, l’Uomo in Nero ecc… Ma questi sono elementi della narrazione che preferirei lasciar esperire a voi.
Vorrei parlarvi invece principalmente di un tema chiave di cui si tratta esplicitamente nella quinta stagione.
Non preoccupatevi degli spoiler, anche perché non ne farò: questa specialmente è una serie che non si presta ad essere anticipata dall’aver detto troppo. E anche se vi dicessero cose che potrebbero sembrare rivelatorie in realtà tenete sempre presente che va vissuta, più che vista.

Il tema chiave di cui volevo parlarvi riguarda le costanti e le variabili.
La componente destino è onnipresente in questo puzzle di intrecci vitali di persone ed eventi.
La parola “esperienza” utilizzata da Yotobi è estremamente calzante. Lost va esperita e va integrata nella propria esistenza come fosse una buona maestra di lezioni di vita.
Una di queste lezioni è che il destino, per chi ci crede, per certi versi esiste. Esistono delle costanti, ad esempio il nostro ruolo nel mondo. Come esseri umani abbiamo dei limiti e delle possibilità, e viviamo per dei motivi che qualcun altro ci ha prefisso. Coloro che muovono i fili della nostra esistenza, per alcuni Dio, per i personaggi di Lost è Jacob e così via, fissano le costanti.
Ma c’è una cosa fondamentale che viene osservata e scoperta da un personaggio: il fisico Daniel Faraday (uno dei miei preferiti). Cioè che non bisogna concentrarsi tanto sulle costanti, ma sulle variabili. Noi siamo le variabili, noi possiamo “variare” il nostro destino. Egli parla di libero arbitrio, ma quello di cui Lost tratta è un concetto secondo me più ampio. Ogni singola scelta che compiamo apre più strade di vita, ogni evento che accade ci fa pensare a delle possibili risoluzioni. Dopo tali eventi torniamo alle nostre scelte, che non sono mai per forza due. Esse spesso sono molteplici e le biforcazioni vitali che ne derivano sono tendenzialmente infinite. Ogni respiro, ogni piccolo movimento, ogni risposta… tutto ciò contribuisce a cambiare attimo dopo attimo la nostra vita. Nessuno ci controlla, nessuno ci manipola. Siamo noi e soltanto noi a controllare la nostra esistenza.
Apparentemente nella serie il destino è il tema centrale, fino alla quinta stagione. Da qui in poi c’è una progressiva rottura con tutto quello che le scorse stagioni ci avevano fatto credere.
Infine volevo soffermarmi sulla insoddisfazione di alcuni spettatori per le faccende inspiegabili che Lost lascia in sospeso. A partire da ogni stagione che, come ho già detto, possiede una sua linea di narrazione. Un’altra capacità della serie è quella di cominciare, con l’inizio di una stagione, lo sviluppo di un lato della storia e finirlo con la fine di essa. Poi, come se si parlasse totalmente d’altro ma rimanendo sempre sullo stesso argomento, l’inizio di un’altra stagione indaga un altro sviluppo della narrazione. Molti questo possono vederlo come una mancanza, o come un’incapacità. Ma io non la vedo così. La bellezza di Lost risiede soprattutto nel lasciarsi esperire. Non ha uno scopo narrativo come una qualsiasi altra serie. Ne risulta che quello che apprezziamo è la sua bellezza artistica, come se vedessimo un quadro di cui non conosciamo a fondo i motivi dell’introduzione di alcuni elementi. Lascia tantissimo spazio all’interpretazione personale. Possiamo ipotizzare di tutto, ma non sapremo mai la verità. Non ci è data saperla e non è questo lo scopo della serie. Lo scopo di Lost è quello di essere vissuta e fruita lasciandosi estasiare dalla sua arte. E, per quanto mi riguarda, lo ha raggiunto ampiamente.

Antonio Carmando - ExtraTime - - Vai alla Home

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