Da circa un anno, per motivi di studio, mi capita di prendere il treno per Napoli molto più spesso rispetto a quanto non facessi prima. Dopo Portici, quando l’odore del mare diventa forte e la vedi apparire, così grande che sembra non avere fine, si può scegliere da che parte guardarla. Se ci si affaccia dai finestrini a destra, poco prima di entrare nell’affollatissima Stazione Centrale, l’occhio viene catturato dall’imponenza del centro Direzionale, un avveniristico agglomerato di grattacieli che si staglia nel cielo, simbolo della metropoli che guarda al progresso. Qualunque viaggiatore arrivi per la prima volta in città guarda a destra.
Dall’altro lato, invece, chilometri di quartieri degradati arrivano fino all’area portuale, edifici fatiscenti e strade desolate. Un mondo nascosto agli occhi dei visitatori come un gemello cattivo, un figlio nato storpio.
Napoli è diversa da sé stessa. E’ fatta di strade maestre in cui si intersecano le tentazioni e le scorciatoie di mille vicoli in cui ci si perde, di bucato appeso ai balconcini e musica che vola via dalle finestre come tante voci di sirene. Ricchi e poveri, reietti e avventurieri, ladri e nobiluomini vi convivono, donandole ciascuno un pezzo di significato. La città è diversa anche a seconda delle stagioni. In primavera il canto degli uccelli la riempie insieme al rumore delle onde e agli abbracci degli innamorati in via Caracciolo, d’estate sono le urla dei bambini e il correre dei passanti, le persiane abbassate per proteggere le case dal caldo durante il giorno e i concertini nei rioni quando scende la sera. In autunno dal mare arriva il vento, l’acqua di increspa e il cielo diventa pesante. La pioggia cade spesso e copiosa, le vie sono coperte da una rete di ombrelli e le pozzanghere battute da tacchi alti di stivali da donna e vecchie scarpe da ginnastica. D’inverno il sole si vede poco, tra i palazzoni arriva il bagliore delle luci accese, una coperta di brina si posa sulle auto e dalla bocca dei passanti escono nuvole di fumo per il freddo e l’umido. Tutto diventa blu notte, le isole scompaiono tra le nuvole basse, il vulcano è una presenza minacciosa che l’occhio distingue appena.
Napoli è cambiata, naturalmente, anche negli anni. I lustrascarpe e gli strilloni in Piazza Garibaldi hanno lasciato il posto ai venditori ambulanti di cover per Smartphone, sono nuovi i tram e scomparsi i ragazzi che vi si aggrappavano alle sbarre, non c’è più la Standa al Vomero e quel che resta dell’Upim in Via dei Mille è ormai solo un’insegna. Eppure, per tanti luoghi portati via dal tempo, altrettanti lo hanno visto trascorrere al loro interno restando quasi immutati.
Fondato nel 1737 il Teatro San Carlo è il più antico del continente ancora attivo. Cinque ordini di palchi disposti a ferro di cavallo più un ampio palco reale, un loggione ed una platea con più di mille posti a sedere hanno conosciuto la ricchezza sfrenata della Dinastia Borbone prima e la Monarchia Liberale dei Savoia dopo l’Unità, i pince-nez abbassati sul naso e gli orologi da taschino dei patrizi ottocenteschi, il ferreo ordine dei Camerati Fascisti negli anni ’20-’30 del Novecento, i costosi vestiti mal portati dei nuovi borghesi del boom economico repubblicano e lo smarrimento dei monarchici decaduti negli anni ’50. Spaccati di vita di cui ancora sentiamo il respiro entrando al San Carlo, percorrendo la Galleria Umberto o mentre aspettiamo il caffè seduti ad uno dei tavoli del Gambrinus. Il passato ci parla da sempre, per questo di fronte alle tavole di Daniele Bigliardo, come leggendo le inchieste del Commissario Ricciardi nei libri di Maurizio De Giovanni, l’impressione è quella di ritrovarvi qualcosa che non riusciamo a sentire lontano nonostante sia trascorso quasi un secolo.
Scritto da Claudio Falco “Il senso del dolore” è il primo dei quattro volumi a cadenza quadrimestrale della collana “Le stagioni del Commissario Ricciardi”, prima volta della Bonelli alle prese con la trasposizione di personaggi romanzeschi in chiave fumettistica. Siamo nel freddo Marzo del 1930 quando il grande tenore Arnaldo Vezzi, uno degli artisti più apprezzati dal Duce in persona viene trovato assassinato nei camerini del Real Teatro. Le indagini vengono affidate agli uomini della Regia Questura di Napoli coordinati dal Commissario Luigi Alfredo Ricciardi e dal Brigadiere Maione. Trent’anni, erede di una nobile famiglia cilentana, il poliziotto convive con un segreto di cui pochissimi sono a conoscenza. Da quando era bambino si è accorto di poter vedere, e ascoltare, i fantasmi di chi è morto in modo violento. Il “Fatto”, lo chiama.
Il caso del tenore presenta pochi e labili indizi. Un testimone oculare dice di aver urtato un uomo che sembrava l’artista dietro le quinte poco prima di sentirne le urla; la scena del delitto presenta tracce di sangue, segni di una breve colluttazione e sul divano un cappello e una sciarpa sembrano essere stati messi lì quasi apposta. E Vezzi, o l’ultimo frammento che ne rimane attaccato alla vita terrena e sussurra a Ricciardi una strofa tratta dalla “Cavalleria Rusticana”.
Sceneggiata in 160 pagine con splendidi toni bui opera di Ylenia Di Napoli e Claudio Errico, “Il senso del Dolore” è un racconto di anime in pena, quelle dei defunti e soprattutto dei vivi. Una storia d’amore, di tradimento, di miseria e fame dove ancor più dei personaggi splendidamente delineati e dei loro tormenti interiori ciò che resta addosso scorrendo le pagine è la sensazione di respirare una città viva, che da tempo immemore e per sempre abbraccerà i sogni, le speranze, le illusioni dei suoi figli vivi e il lamento sordo, ineluttabile, di quelli morti.
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